9 marzo 2012

La profezia che si autoavvera

Buongiorno a voi, amici di Educazione Consapevole!

Ieri mattina ho ricevuto un regalo: la visita di una cara amica che è venuta a trovarmi e ha trascorso qualche ora con me, dandomi la possibilità di godere della sua compagnia e di riflettere sul fenomeno della “profezia che si autoavvera”.

Forse qualcuno di voi ne ha già sentito parlare, magari in contesti e situazioni legati alla scaramanzia (“non dire così, che poi succede davvero!” oppure “non dirlo neanche per scherzo, che te la cerchi!”).

Partendo dal presupposto che la profezia che si autoavvera, intesa come fenomeno psicologico e relazionale, nulla ha a che fare con la scaramanzia, possiamo cercare di capire meglio di cosa si tratta.

Io ne ho sentito parlare “correttamente” la prima volta durante una lezione del corso di Psicologia Generale, il primo anno di università. Il buon professor Anolli ci spiegò che la nostra mente ha la capacità di filtrare la realtà che ci si presenta, di modo che tendiamo a vedere alcune cose e ad ignorarne o addirittura respingerne altre
 


Mi ricordo che utilizzò l’esempio degli ultrasuoni e dei raggi infrarossi, che pur esistendo non sono udibili e visibili ad orecchio ed occhio umano, perché il nostro cervello non è in grado di recepirli. Disse che ognuno di noi ha i “propri” ultrasuoni e infrarossi, di modo che dieci persone possono percepire dice cose differenti di fronte ad uno stesso stimolo.

Si trattava di una lezione di Psicologia Generale, stavamo affrontando l’ostico tema della percezione… ma il professor Anolli era anche docente di Psicologia della Comunicazione e non mancava di proporci ragionamenti più ampi e ricchi del dovuto; per cui aggiunse che questo meccanismo della “mente filtrante” poteva avere effetti importanti all’interno delle relazioni tra le persone, orientandole e, a volte, impedendole e distruggendole.

“Si chiama profezia che si autoavvera” – disse – “e funziona così: se io non ti conosco e ci incontriamo, io ti osservo e di te mi giungono una serie di “dati”, di informazioni; alcuni di questi “dati” sono trascurati dalla mia mente perché, per come è strutturata ed impostata, questi dati le risultano, magari, sgraditi. Altri dati, invece, sono colti con enfasi ed attenzione, perché magari evocano sensazioni positive o mi ricordano qualcosa che mi piace. Insomma: la mia mente comincia già a scegliere (ecco l’effetto-filtro) qualcosa di te e “tu” non sei già più “tu” perché nella mia mente si forma pian piano un’immagine di te che è costruita dalla mia mente stessa.
Poi, se continuiamo a frequentarci, la mia mente pensa e questi pensieri evocano in me delle emozioni che, a loro volta, mi inducono a produrre nei tuoi confronti certi comportamenti. E con il tempo, specialmente se tra me e te per qualsiasi motivo non c’è “parità” ma “disparità” – perché io sono ad esempio tuo padre o un tuo docente o il tuo ragazzo e la mia posizione ha un effetto relazionale incisivo su di te – i miei comportamenti ti inducono a comportarti in modo da confermare l’immagine di te che la mia mente ha creato e che tenterà di rafforzare nel tempo, per risparmiare risorse ed energie”.

Silenzio in aula, tutti pendenti dalle labbra del professore che ci guardava sperando che qualcuno di noi facesse un commento arguto e sagace… Macchè…

“Per cui” – riprese con un mezzo sospiro il professore, guardandoci in tralice al di sopra degli occhiali poggiati sulla punta del naso – “se io penso che tu sia stupido e sento che non ti apprezzo perché non mi piacciono le persone stupide e mi comporto con te trattandoti da stupido, accade che tu inizierai a comportarti esattamente da stupido e io sarò sempre più convinto di avere ragione e tu ti convincerai di essere… uno stupido. Il problema è che, magari, tu non sei per niente stupido… ma la mia relazione con te ti plasmerà, trasformandoti in qualcuno che confermi l’idea che mi sono fatto di te”.  

Il mio povero compagno di corso seduto in prima fila (scelto da Anolli per fare questo incisivo esempio) era di un color cremisi acceso che poco lasciava all’immaginazione: non ho mai saputo se fosse stupido, ma di sicuro si sentiva un po’ in imbarazzo…

Forse vi state chiedendo cosa sia accaduto ieri tra me e la mia amica per farmi riflettere sulla profezia che si autoavvera: in realtà una cosa semplicissima, addirittura banale. C’entra un criceto russo – e non si tratta di esperimenti alla Skinner (qualche anno fa avevo un altro criceto russo e si chiamava proprio Skinner, ma questa è un’altra storia).

Ebbene: il criceto che fa attualmente fa parte della nostra famiglia (e che si chiama Squicky, a onor del vero) ha ormai preso l’abitudine di arrampicarsi sullo sportellino della sua gabbia e di iniziare a rosicchiare finché qualcuno gli apre e lo tira fuori.
Squicky è un semplice criceto russo, un topino grigio di piccole dimensioni che sta in una mano, non è né un animale particolarmente bello né sa fare cose speciali e il suo prezzo di vendita ammonta a pochi euro. Insomma: ad essere oggettivi è un topo grigio e basta.


Questo “per il mondo”: per me, invece, è l’ultimo di una lunga serie di animaletti domestici la cui presenza mi ha sempre accompagnato nella vita, sin dall’infanzia. Quando l’abbiamo regalato al mio piccolo uomo mi sono sentita ricapultata indietro di anni, a quando ero io la bambina cui veniva regalato un cucciolo di criceto, un porcellino d’India, un cane. E quell’anonimo topino grigio ancora senza nome (scelto, com’è ovvio, dal suo nuovo padroncino) diventò all’improvviso il “nostro criceto”: mi sembrava persino più bello, più sveglio e più simpatico di quelli che condividevano la gabbia con lui. E nonostante un inizio di relazione non facile – avevo appena scoperto di aspettare un altro figlio e cercavo di stare molto attenta a non farmi morsicare perché non sapevo se il criceto veicolasse la toxoplasmosi – oggi il piccolo Squicky è un membro della famiglia a tutti gli effetti.

Ebbene: ieri mattina la mia amica, vedendomi prendere in mano Squicky, parlargli e accarezzarlo e vedendolo così confidente e tranquillo mi disse: “Ma ti vuole bene! Non pensavo che un cricetino fosse un animale… così”. 

Io non so come sono “i criceti” in generale, so solo che ho visto in quel topino grigio un amico, fin da subito, e l’ho sempre trattato con rispetto e dolcezza (anche se lo prendo parecchio in giro, ma non mi sembra che lui se la prenda troppo…) e, così facendo, gli ho permesso di esprimere comportamenti di interazione e di fiducia. L’ho “costruito”… e con gli altri membri della famiglia non si comporta come fa con me, perché ognuno degli altri vede in lui cose diverse. E, così, lui è diverso con loro.

Sapete una cosa? Si può fare lo stesso ragionamento su tutte le relazioni tra esseri viventi e, in special modo, tra esseri umani. 
Pensate ad una mamma e al suo bambino: è un bambino come tanti altri ma, per la sua mamma, è la meraviglia delle meraviglie. È unico e speciale, il bambino più splendido mai esistito al mondo.
Oppure è un estraneo, magari un bambino non desiderato, non voluto.
O magari è una sorta di nemico da cui guardarsi, perché “altrimenti hai finito di vivere”.
Ricordo che pensai alla profezia che si autoavvera quando lessi su un libro di psicologia dello sviluppo che il primo sorriso sociale di un neonato compare solo dopo il secondo mese di vita. Mi chiesi che effetto poteva avere un’informazione del genere sui pensieri, sulle emozioni e sui comportamenti di una neomamma: i sorrisi precoci del suo bambino come le sarebbero sembrati? 

Li avrebbe ignorati “perché tanto non sono ancora sorrisi sociali” o avrebbe ascoltato la voce del suo cuore e avrebbe risposto ad ogni sorriso, da subito, permettendo così al suo bambino di sorridere ancora e ancora di più? Speravo tanto nella seconda ipotesi, mi sembrava più giusta. E anche più bella.

E con il tempo iniziai a pensare alla profezia che si autoavvera fin dalla pancia della mamma, quando un “feto” si trasforma in un “figlio” e lo si considera e tratta come un vero essere umano senziente, protagonista della propria esistenza, un essere capace di vita psichica, di interazione e di relazione. E così facendo gli si consente di esprimere ciò che può, in relazione al livello di sviluppo che gli compete.

Se guardiamo i nostri figli con occhi amorevoli e li trattiamo come persone degne del nostro rispetto e della nostra considerazione sincera ed onesta, consentiamo loro di esprimere le migliori parti di sé, anche se sanno metterci di fronte ai nostri limiti per cercare i loro, quando mettono alla prova la nostra “tenuta” e osano farlo perché hanno imparato a fidarsi di noi.
E quando esprimono il “peggio” desiderano essere amati e guardati con occhi amorevoli comunque, per poter riprendere ad esprimere, poi, anche le parti migliori di sé.

Come è difficile essere genitori: ma quale enorme opportunità di crescita ci offre la maternità, la paternità. Ringraziamo i nostri figli per l’occasione che ci danno e diamo noi, a loro, l’occasione di coltivare le parti migliori di sé, quelle che si sono rivelate ai nostri occhi dal primo contatto, dal primo sguardo, dal primo sorriso.

Facciamo della profezia che si autoavvera un’alleata: vediamo nei nostri figli cose buone e belle e loro potranno realizzare la bontà e la bellezza che è dentro di loro. Ed è tanta, in misura colma e traboccante.

Un caro saluto a tutti,
Maria Beatrice 

3 commenti:

francesca ha detto...

Grazie! Grazie di esserci e di saper mettere in parole quello che inconsciamente le mamme sentono ... Da ieri inizio a sentirmi mamma e per la prima volta l'ho scritto a una delle persone piu' importanti della mia vita....

Fiammetta Spazio Neomamma ha detto...

A volte facciamo diventare difficili le cose più semplici, brutte le cose belle, veloci le cose lente... Si può provare ad apprezzare anche il peggio dei nostri piccoli, perchè ce lo danno col cuore... Ci lavorerò sopra... Grazie per le tue parole.

Educazione Consapevole ha detto...

Care mamme,
il ringraziamento va a voi!

Cercare di guardare i propri figli con occhi amorevoli anche quando le situazioni evocherebbero ben altre reazioni... è una sfida continua e quotidiana. A me sembra di lavorare con una bilancia di quelle a due piatti e ogni volta che riesco in questo intento mi vedo ad aggiungere un sassolino bianco al piatto della libertà, dell'amore, del rispetto. Ogni volta che non riesco (e quante sono!), ne aggiungo uno sul piatto del limite e dell'incomprensione.

La mia bilancia è in perenne movimento, quindi. Mai ferma allo stesso posto e mai in stabile equilibrio. Cambia assetto in continuazione e noi con lei.

Ma l'obiettivo non scompare alla vista, a volte si nasconde solo un po', come fa il sole dietro le nuvole. Poi, al momento opportuno, si mostra di nuovo e il percorso (quello già fatto e quello da fere) appare ancora ben evidente.

La genitorialità consapevole è allo stesso tempo un desiderio e un impegno continuo, mai finito, mai concluso. Fino all'ultimo giorno della nostra vita di genitori.

Insieme si può. Per questo GRAZIE per aver commentato e condiviso i vostri pensieri.

Maria Beatrice :)